Miti, trame e poteri: l'Odissea e il Castello



1926: va alle stampe, postumo ed incompiuto, Il Castello di Franz Kafka.
1947: Adorno e Horkheimer pubblicano Dialettica dell'Illuminismo.
In questo breve lasso di tempo risuona il de profundis dell'Occidente nei campi di concentramento e di battaglia, mentre il tramonto dei miti ottocenteschi precipita letteratura, arte e filosofia in un gorgo di cupa disillusione.
Oggi, mentre crollano sistemi economici e certezze scientifiche, due artisti interpretano e rielaborano questi moniti inascoltati, oscure profezie sul destino della civiltà tecnica e razionale, donando nuova vita a riflessioni profonde ed attuali più che mai. 



Negli anni della guerra, durante l'esilio americano dei francofortesi, giunge a piena maturazione la cosiddetta “teoria critica”, vale a dire la rilettura dell'intera storia occidentale come storia della Ragione che, dal logos greco all'illuminismo francese fino ai totalitarismi del '900, si manifesta come pura volontà di dominio. Fin da Omero e la nascita del mito, infatti, l'uomo occidentale si comporta come colui che nega le differenze discrete della natura e dell'Essere; l'uomo che possiede la ragione tende a ridurre tutto a quantità, al contrario dell'uomo arcaico che conosce le diverse qualità del mondo. La violenza e l'inganno che Ulisse esercita su Polifemo sono l'atto di nascita di un'umanità nuova, libera dalla superstizione e capace di essere soggetto di potere.  Ne deriva una scissione che possiede un aspetto tragico: l'uomo non è più parte del mondo, ente fra gli enti, egli è ora il prescelto per il dominio della natura attraverso lo strumento del logos; misura, quantifica, manipola, costruisce e distrugge. La stessa creazione mitica degli dei chiarisce questa dinamica poiché gli olimpici non sono gli elementi (il sole, il vento, il mare, il fuoco) bensì li simboleggiano. In questo senso l'invenzione di Eolo o Poseidone non è differente dall'invenzione degli strumenti di misurazione o della geometria. Ulisse è il prototipo del moderno borghese, dedito al lavoro ed al dovere ed incline a strumentalizzare (rendere oggetto) tutto ciò che lo circonda, compresi gli altri uomini. Il lato oscuro e violento della ragione strumentale si manifesta nella schiavitù e nella sopraffazione, nella gestione burocratica ed efficientista delle guerre, dei rastrellamenti e delle pulizie etniche , nella riduzione del mondo e dei suoi contenuti  a cose e mezzi. 
L'esito di questo processo è, per Adorno e Horkheimer, inevitabilmente la follia, l'irrazionalità autodistruttrice dell'uomo incapace di trovare finalità e valori, il cieco pragmatismo fine a se stesso. Magistralmente Kafka dona forma letteraria a questa condizione in-umana: l'assurdità tecno-burocratica che regola la vita è protagonista di tutte le sue opere, un virus etico che profana la carne ed il corpo (la Metamorfosi), che ipnotizza l'intera società rendendola complice dell'insensata condanna al nulla (il Processo), infine la struttura impersonale, enigmatica e minacciosa del potere che domina dall'alto, da un altrove impenetrabile ed ostile (il Castello).



Omero e Kafka, l'Alfa e l'Omega della letteratura occidentale, due facce di una medaglia appuntata sul petto dell'uomo tecnocratico dominatore della natura e dei suoi simili. Similitudini e assonanze increspano le pagine dei due capolavori, tematiche che si incrociano e rispecchiano come nei personaggi di Proteo, la divinità marina vaticinante e mutaforma, e Klamm, lo sfuggevole trasformista intermediario del potere. O nei luoghi della narrazione, come il ponte del villaggio ne Il Castello e Capo Malea nell'Odissea, oltrepassati i quali si entra nello spazio enigmatico della divinità inaccessibile.

L'Odissea è l'alba della letteratura occidentale che vede il mito apparentemente proliferare nelle forme, quando in realtà si tratta di una neutralizzazione autoritaria della natura minacciosa ed arcaica. Le divinità intervengono per modificare il corso degli eventi ma l'eroe del logos ha ragione dell'oscurità; il prezzo è il sacrificio dei compagni e dell'equipaggio, il prezzo non è che l'umanità stessa di Ulisse. Il Castello invece è il tramonto, come simboleggia il Conte West-West rintanato al di fuori del mondo che domina: il mito è ormai uscito definitivamente dalla vita dell'uomo razionale, ma con ciò non sono disinnescati i pericoli della follia primordiale; anche nella forma del deus otiosus (proiezione dell'indecifrabile Dio dell'ebraismo) l'oscurità minaccia la luce della ragione mostrandosi come il suo inestricabile doppio.



Perfetti interpreti dello spartito millenario composto dalla razionalità strumentale e dalla volontà di dominio, i due artisti immergono il loro talento compositivo nella luce e nella tenebra del logos dando forma ad immaginari potenti quanto minuziosi. Da un lato Frédéric Coché penetra fra gli strati sedimentati in 2500 anni di interpretazioni omeriche, giocando con  citazioni e riferimenti ma mantenendo allo stesso tempo il tono epico della fonte. I soldati achei talvolta sono armati di mitragliatrici, fumano, controllano l'orologio ma non perdono mai la statura mitica o il rigore netto e lucido tratteggiato da Omero. Anche quando Coché si fa beffa delle interpretazioni psicanalitiche mutando forme e figure in falli, vagine e orifizi non scade nel cliché del cinismo postmoderno, semmai declina un virtuoso erotismo mediterraneo già presente nel testo. L'anacronismo non è mai parodia, la deriva erotica non è mai volgarità; ma allo stesso tempo il rispetto per le fonti non frena la molteplicità delle invenzioni visive e trascende la mera illustrazione. Coché prende il testo omerico e lo fa deflagrare contro la folla di interpretazioni, commenti, tradizioni iconografiche che nei secoli hanno reso sempre attuale l'Odissea. Il flusso narrativo che ne deriva appare così allo stesso tempo composto e centrifugo. La nitidezza del tratto e la precisione della ligne claire (punto di riferimento della tradizione fumettistica franco-belga) danno l'impressione di una linearità spodestata da una potenza visionaria impareggiabile che esplode in tavole ai limiti dell'astratto, come dimostra la straordinaria sequenza del viaggio nell'Ade.


 

 

Il lavoro compiuto da Deprez sul Castello è invece viscerale ed espressionistico fin dall'inizio; dall'ideazione all'esecuzione l'artista corrode la materia di cui sono composti i personaggi e le scene della (in)azione: i volti, i corpi, le campane, i ponti, le montagne, tutto sembra scavato nella materia pura da un demiurgo infernale, insensibile anche di fronte ai rari scorci di umanità che a fatica emergono dagli sguardi stilizzati. Talvolta si tratta di pochi, decisi colpi di scalpello, in altri luoghi sono moltitudini di segni e schegge a ferire tavole accecanti di cupa disperazione. La tecnica xilografica crea forme nette ma in perenne mutazione, combattute fra luce ed ombra, fra pensiero e resistenza della materia. L'inconciliabilità fra gli opposti fa sì che l'immagine rifiuti la forma ed è, in fondo, una questione puramente linguistica. E' un problema di linguaggio, infatti, che si pone di fronte a chi vuole nominare l'indicibile, a chi vuole trarre fuori dalla materia nera, ruvida e scabrosa il senso di un'umanità al tramonto. Del resto incompiutezza ed indeterminatezza sono i caratteri, tragici, del testo kafkiano, fatto di attese e silenzi immobili quanto lancinanti, dialoghi indecifrabili, edifici e luoghi muti nella loro enigmatica presenza.

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