Dunque: maledetto Giacometti, dicevamo (clicca qui per la prima parte). E lo dicevamo estendendo idealmente il corsivo a tutto l’articolo. Il corsivo è una strategia tipografica dell’attenzione: e di questo, volevamo trattare, a livello meta-critico, nel raccontare di Giacometti attraverso nove, provocatorie maledizioni. (Skippa al quarto paragrafo se non t'interesse la polemica). Ossia, non solo dell’opera dell’artista: ma di una pratica di marketing culturale, quella per cui il tam tam vodoo delle etichette vendibili rianima morti viventi con una make-up critico di sicuro appeal, ma di non altrettanta scontata incisività divulgativa. Leggi Modigliani Soutine e i maledetti, e d’un colpo un capitolo di storia dell’arte è confezionato come un feuilleton da qualche storico\curatore Fantomas, bendato ed impunito, sempre pronto a fare “storia dell’arte d’appendice”, o patologicamente d’appendicite: di facile, facilissimo stomaco. L’invasione, ancora, nell’anno del Signore 2013, di mostre su Picasso – un volto diverso in ogni città, come le maschere sovraimpresse delle Demoiselles – rende ragione di questo discorso: si vendono nomi ed etichette, non si racconta la Storia, e forse nemmeno più le storie.
DIVULGAZIONE MALATA - Provavamo ad attraversare questo modello, senza pregiudizi – o meglio, sfidando il pregiudizio: adottando, cioè, questa stessa strategia per Giacometti, romanzandolo con la massima serietà, nemmeno stessimo scrivendo l’introduzione di un catalogo patinato. Una differenza importante, infatti, si pone tra la pratica divulgativa della critica d’arte scritta e quella delle mostre: queste ultime comportano lo spostamento fisico di opere che sono cronicamente malate, deperibili; scrivere, invece, mobilita l’immaginazione ad un costo di gran lunga inferiore. Domanda, allora: perché si afferma la spettacolarizzazione delle mostre, ma non la spettacolarizzazione della scrittura? La prima, subito, decade nell’affarismo, nelle mostre di propaganda – a vantaggio di curatori ed amministrazioni – e nella circonvenzione critica di spettatori; la seconda, invece, potrebbe sublimarsi nella divulgazione, nello stimolo ad auto-determinarsi con approfondimenti autonomi, nella comunicazione di un’essenza lirica che travalichi lo slogan del depliant della mostra. Se il primo trend funziona, ed il secondo no, è per una ragione semplicissima: tutto, come sempre, è in mano ad una casta di “tecnocrati”, di accademici e di politici che con la sostanza del fatto artistico hanno poco a che fare. Ecco, allora, proliferare le mostre inutili; ed ecco, sempre, tacitarsi le voci che servono, quelle di una critica più didattica, con i suoi voli pindarici, delle trasvolate oceaniche delle fragili opere d'arte.
Quindi? Scesi dal carrozzone delle mostre\fiere, scendiamo poi - o saliamo, fate voi - nel campo della critica militante? Non siamo così donchisciotteschi. Lasciate che a quel Sistema si contrapponga l’inutilità, l’edonismo di articoli come questi: e lasciatemi divertire, per contrapporre Palazzeschi al Palazzo. E lasciate che vi racconti, ancora, Giacometti, colorendolo oltremisura. In altre tre capitoli maledetti. I Curatori si cureranno d'altro, già lo sappiamo.
LA MALEDIZIONE DEI CUBI – “Sono finito a fare dei cubi, non potevo più che fare ripetizioni di cubi, e sfere più o meno riuscite o più o meno mancate, e in fondo l’esperienza stessa finisce” – scrive Alberto Giacometti. Due opere collegabili a questa confessione sono Cubo e Testa cranio, realizzate a distanza di pochi mesi, la prima nel 1933 e la seconda a cavallo col ’34. Mentre i Surrealisti, ampiamente frequentati in quel di Parigi, stavano facendo del pennello una sorta di golem dell’inconscio, avviato in avanscoperta nei territori di un immaginario sommerso, Giacometti spiazza i colleghi a suon di totem, smussando la varietà del “reale” in forme essenziali. Si tratta di una scelta spigolosa, di una tendenza ad azzerarsi produttivamente come a gemmare, in sfaccettatura poliedriche, una natura archetipica, rifusa nell’alchimia della forma. Cubo, che a noi verrebbe da accostare ad un ferro da stiro, oltre a costituire la citazione di un poliedro della famosa incisione di Dürer Melancholia I, era per Giacometti una testa. Non pesa tanto a livello tecnico, quanto pesa, e basta, il fatto che la scultura sia in bronzo: l’epitome della gabbia cerebrale, la mentalizzazione della visione, dunque, è prima di tutto una presenza massiccia, misurabile nel pondus dei chilogrammi. “Spingersi oltre, ricominciare tutto, sculture, disegni, scrittura”, annota nel 1934: in qualche modo, ricominciare dal dato primigenio, che precede l’evoluzione degli occhi, del naso, della testa, delle sopracciglia. Il dato dell’essere, dell’esser-ci, del farsi spazio. Il ferro da stiro scotta, nell’urgenza del darsi con tutto il proprio rilievo. Testa cranio fu pubblicata nel 1934 sulla rivista Minotaure, insieme a Cubo. L’accostamento è emblematico, pressante: le squadrature di Testa cranio si agitano nel gesso come creste inquiete, le depressioni circolari degli occhi s’infossano come assorbite dall’abisso delle orbite, la bocca si scava come un carsismo col righello, una fenditura inevitabile per questioni fisiche e di fisica. È un’adolescenza creativa forzata, un riassestamento tettonico di un conato di appropriamento della realtà: dopo i cubi dilavanti, l’onda di ritorno della realtà riaffiora, erodendo la compattezza dell’Essere con i primi, spumosi vagiti. L’esperienza ricomincia.
LA MALEDIZIONE DELL’OCCHIO – Si gioca una partita decisiva, per Giacometti, nel rapportare il proprio occhio alla realtà: questo garbuglio indefinibile che l’artista cerca di afferrare, eppure avverte perennemente in dissolvenza, come visione che si consuma, come sgretolamento prima retinico e poi della coscienza. Disperante l’afflato di Giacometti di voler rappresentare, eppure di avvertire la limitatezza dell’occhio, e della mano che vi obbedisce: al punto che annota: “Tutti i giorni, ricominciavo ogni giorno la stessa testa. Scolpivo esattamente come se fossi a scuola. Più guardavo il modello, più lo schermo fra la realtà e me si ispessiva. Più la sua visione reale spariva. Più la sua testa diveniva ignota. Non si è più sicuri né dela sua apparenza né della sua dimensione”. Così l’artista commenta le lunghe sedute ingaggiate nel tentativo di ritrarre il fratello Diego tra il ’35 ed il ’40. Pochi anni prima, nel 1932, lo scultore aveva realizzato in legno e metallo Punta nell’occhio: un oggetto sferiforme, come una mela bacata, poggia su uno spillone, in esatta corrispondenza del minaccioso sviluppo orizzontale di una punta acuminata. Vien naturale pensare al rasoio che fende l’occhio nella famosa sequenza di Le chien Andalou, il film realizzato da Luis Buñuel e Salvador Dalì nel 1928, oppure l’Histoire de l’oeil di Georges Bataille. Ma più che fare i conti col Surrealismo, pare che Giacometti espliciti il dramma di fondo della propria esperienza umana ed artistica, sia pure attraverso una costruzione surrealistica. Ricevere la realtà è in qualche modo infliggersela, avvertirla secondo una forza di penetrazione che non ha tanto l’aspetto rassicurante dell’immedesimazione o della comprensione, quanto della riduzione all’inabilità: dell’accecamento. Non è solo una punta che minaccia un tondo, ma una lunga superficie orizzontale che s’impone rispetto ad un puntino: non importa, dunque, se la punta sia già penetrata o meno, ciò che conta è l’impossibile pareggio con ciò che si vede, un soverchiamento che già si dà nelle premesse di una realtà affilata, e di un occhio che non può funzionare se non nel farsi male.
LA MALEDIZIONE DELLO SPILLO – Erosione e farsi male: la sintesi a cui ambisce Giacometti, tra visione e realtà, consuma. Il non potere logora. Ma non è astrazione: è maledettamente fisico, fisico negato. Nel 1966, l’amico fotografo Brassaï ricorda una visita del 1940 nello studio dell’artista: “Ricordo il suo atelier intorno al 1940, quando i busti, come in seguito ad una rivoluzione climatico o geologica, cominciavano a rimpicciolirsi fino a ridursi a teste di spillo. Poi, all’improvviso, divennero piccole figurine che si slanciavno come piante intristite che cercano la luce tastoni. In quel periodo si camminava su una montagnetta di resti di gesso, un’ecatombe di figure condannate e distrutte in una specie di rabbia”. È un tran tran impressionante quello dei sacchi di gesso che entravano nell’atelier, per dare luogo ad opere consunte, sgretolate dalla tensione dell’infacibile, di una patologica fragilità. La stanza asfissiata, come uno scenario post-apocalittico, dalla polvere bianca; le orme di Giacometti, all’esterno dello studio, come sotto le piante dei piedi dei primitivi di Lascaux, intrise del terriccio dopo aver dato luogo a figurette dalla trasparenza aggressiva di una lisca. Uomo che cammina del 1947 sembra fissato nel limbo temporale di una cicatrizzazione incompiuta: i piedoni saldamente fissati alla base, le gambe filiformi che si slanciano come uno stelo d’argilla, il busto che guizza secondando un tormento atmosferico, corrosivo; la testa che guarda innanzi, troppo in alto, una calotta in equilibrio su di un obelisco ammalato dall’ardire di una scanalatura. Né la natura tendinea di un Boccioni, né l’ammollarsi nella luce di un Medardo Rosso: è tutto, sempre, elastico e cedevole, come la curva del petto, dove s’intuisce ribollire una divorante energia esistenziale. Un’esistenza precaria, assottigliata: ma tant’è, un esser-ci acuminato come uno spillo.
(...continua...)