Sentiremo ancora per qualche tempo parlare de Il grande Gatsby e del grandioso Luhrmann, prima che le sale, ad una ad una, smontino il chiasso dei villoni del West Egg ed i sogni del milionario, dopo i bagordi del botteghino, ripiegando su qualche altro fenomeno dell’ultima ora. Il grande Gatsby di Baz Luhrmann, di fatto, è un fenomeno: ma nel senso etimologico. È un’apparizione, una manifestazione – l’ingordigia dell’immagine. Della musica, anche: altro che Back to black di Amy Winehouse nella cover di Beyoncè, che sfolgora e sfavilla tra la black music del jazz sfrenato. Qui anche le note si fanno colore: il problema è che non si fanno calore.
Ho avuto già modo di esprimermi sul film, con una certa dovizia – e con marcato scetticismo. Ho parlato, in soldoni, di questa macchina per far soldoni: di questo Moulin Rouge in cui piomba Gatsby\Di Caprio, quasi naufrago dal Titanic di Cameron, naufrago di sentimenti in un naufragio di idee, in una tempesta visiva. “Se dovessimo rinvenire un fil rouge tra Il grande Gatsby e la precedente produzione di Lurhmann, lo troveremmo… nel Moulin Rouge. Tutto, ancora, è una giostra spettacolistica e multicolore, che fa da ridondante scenografia ad un amore difficile: i sentimenti sono una girandola da mélo, con saliscendi emotivi da montagne russe, più che da trivellazione drammatica”.
Certo è che troppe certezze fanno male; e già in quella recensione, a proposito di montaggi e smontaggi, cercavo piuttosto di capire, recuperando qualche brandello di neutralità, il meccanismo discutibile, ma pur sempre funzionante, per cui si è fatto di una scatola di sentimenti una scatola di scenografie, che saresti indeciso se dire a la page o vintage. O forse entrambe: chè il vintage è di moda. Ed è forse paradossale che il recupero di questa imparzialità, fatta più di attese e di ascolto\visione, di sforzo di comprensione, che di drastiche calate di sipari e giudizi taglienti, possa provenire da uno spunto attinto da uno degli storici dell’arte più parziali, più programmaticamente partigiani ed aggressivi: Roberto Longhi.In particolare, la suggestione è recuperata da una pagina, piuttosto celebre, sul Tiepolo – altro allestitore di scenografie visive.
(Tiepolo, affreschi di Palazzo Labia)
E se si osa tanto, non è perché di ville, il pittore veneto, ebbe ben ad intendersene: palazzi di parvenu legittimati da mitologie – ora ci vuole – a la page; apparati d’immagini affrescate in cicli anticheggianti, con primo e secondo tempo; retorica celebrativa, ma quanto abbagliante, in quegli azzurri di memoria veronesiana, con cui i cieli bucano soffitti e pareti, come saturazioni corrosive di fotografie ante-litteram; sfilate festose in cui al seguito di Apollo spunta l’aristocratico cattolico, o l’architetto dei tempi loro, così come Cleopatra e Antonio s’ingualdrappano in enfie e fruscianti vesti settecentesche: trappole di luce che indugia sui panneggi azzimati, trappole per occhi avvezzi a farsi intrappolare dai virtuosismi della pittura. Non è questo che rievochiamo il Tiepolo longhiano: per quanto sia affascinante avventurarsi in considerazioni del genere.
È, piuttosto, il fatto che su Tiepolo già Longhi ebbe modo a richiamarsi ad un’evocazione cinematografica, con aria dichiaratamente risentita. In Viatico per cinque secoli di pittura veneziana (1946), il critico e storico d’arte scriveva: “Né intendeva il Tiepolo che quel primo ordito incondito era sorto come segno primo di una fantasia da scoppiare in disperato dramma attraverso le opposizioni del bianco e nero. Tutto al contrario il Tiepolo si fidava di potersene servire come di prima guida tecnologica per sboccare in una presentazione tutta palese, dove anzi trionfassero in chiarità atti vestiture e visi dei nobili ordinatori, disposti in istorie antiche e moderne. (…) Ma proprio in quest’aria da “obiettivo”, e via via che si distrugge l’abbozzo, è facile intendere che cosa possa sortire quando vi si rovesci dentro il suo inesauribile teatro in veste mitologica, sacra e profana. Ne vien fuori, incredibile ma vero, il film in costume e, peggio ancora, in 'technicolor', ne vengono certe detonazioni di colore che bucano i soffitti, o certe smontature improvvise, certe metrature di raso freddo, certi panneggi in carta da pacchi (come sentii dire un giorno da uno spirito arguto), certi pezzi di 'trompe-l'oeil' che rasentano Cesare Maccari e Cecil B. de Mille. Si aggiunga che il Tiepolo non credeva più a quel suo mondo tronfio e immaginoso; ma, per consuetudine, lo riveriva”.
Il cinema di De Mille, regista e produttore, per spiegare il teatro in costume di Tiepolo: l’idea era quella di evidenziare certa (sgradevole?) pittura recitante, come quella cinematografia primo-novecentesca tutta divismo, scen(ografi)e e set di derivazione teatrale; certa enfasi sentimentale, “disperato dramma”, che il dramma se lo perde nel “mondo tronfio e immaginoso”. Chi ha poi visto qualche film come The Golden Chance (1915) di De Mille, non potrà far a meno di sorridere alla chiusura del cerchio Gatsby di Luhrmann\Tiepolo\cinema, ragionando sulla trama di milionari, nuovi nobili ed arricchiti (leggi qui); stupendosi ai chiaroscuri esacerbati nel romanticismo melodrammatico dello script, non meno che della visione; infine, ricordando la scritta così Gatsbyana della cover del dvd del film: “Don’t change your husband”.
Una frase che, sola, basterebbe a condensare tutta l’incertezza della Daisy di Fitzgerald, della Daisy\Carey Mulligan, tormentata – troppo, o troppo poco – come una Gloria Swanson. Anche il “Guazzoni-film” che poco dopo lo storico dell’arte cita a proposito del baciamano di Antonio a Cleopatra di Palazzo Labia, è abbastanza trasparente come analogia di una messinscena ampollosa (vedasi qualche film di Enrico Guazzoni, regista... e pittore, classe 1876, che esordì come cartellonista e decoratore).
(una scena da Il grande Gatsby)
Sempre Longhi, smonta – ma anche nel senso di “aprire per vedere come è fatto dentro” – il mondo di Tiepolo con un’altra sentenza che pure si attaglierebbe alla nostra idea del film di Luhrmann: “E non era il mondo smemorato, smarrito e ironico del Longhi, ne quello soavemente fatuo di Rosalba; anzi un mondo di dominanti altezzosi e scadenti, congegnato in un'atavica accidia di gesti oratori, deprecativi, magnanimi a vuoto, benignanti dall'alto. Questo continuo ritratto composito dell'aristocrazia cattolica di corte settecentesca rimestato nel calderone della mitologia classica, alleatasi ad una storia ad usum delphini, non va esente da una certa, purtroppo quasi sempre involontaria, comicità”. Si leggano le sovrimpressioni esasperate, i sorrisi di Di Caprio da Mentadent più che da jazz drama, i “vecchio mio” che anche noi diremmo “magnanimi a vuoto”: l’impianto drammatico di Luhrmann crolla come la cartapesta di un apparato scenico, ma non è forse un ritratto plausibile di certa vacuità effervescente dei ruggenti anni ’20?
(Residenza di Wurzburg. Anzi no, villa di Gatsby)
In questo senso, così come lo stesso Tiepolo è da sdoganare rispetto alla severa bollatura longhiana (ed è stato fatto), se non altro perché quella pittura s’intonava ai tromboni dell’aristocrazia ed alle sue amplificazioni sterili, vien da pensare che non si possa buttar via tutto quanto di spettacolare c’è ne Il grande Gatsby. Sarebbe forse come liquidare certi capolavori tiepoleschi come L’Olimpo e i Quattro Continenti della residenza di Wurzburg, dei prestigiosi principi vescovi della famiglia Schonborn, e segnatamente per Carl Philipp von Greifenklau. Un capolavoro fastidioso.
Tutto è illusione, nella volta dello scalone, pensata come un proscenio di feste e ricevimenti gatsbyani. Apollo appare al centro, ma chi lo vede tra tanta luce? La tecnologia, o il technicolor, di Tiepolo crea una pozza liquida di azzurri intrisi ed adamantini, quasi liquidi come una piscina o una fontana; gli stucchi del bordo sono il cancello dell’illusione, di un mondo autoriferito, in cui i prodigi passano dal 3D della scultura alle disinvolte sinfonie di bianche nuvolaglie, mentre i mantelli svolazzano slargandosi nell’aria e nella chiarità cromatica, pur turbata, e conturbata, da qualche grigio rorido.
(Tiepolo, affresco della volta dello scalone di Wurzburg)
Quella era pittura, questo è cinema: ossia, un’arte – la settima – che non è pura immagine, a differenza dell’affresco, ma anche impianto drammatico, più o meno elegantemente ignorato da Luhrmann - una licenza che il Tiepolo poteva prendersi, mentre su un film di derivazione fitzgeraldiana abbiamo i nostri dubbi. Per cui, si potrà chiudere questo parallelo con alcune parole di Guido Piovene sull’arte di Tiepolo, che ancora sembrano evocare – ma non giustificare – il meccanismo luhrmanniano: “Ma lirico, sensuale, fantastico, favoloso, illusionistico, teatrale, sono parole che si adattano al Tiepolo. La sua arte ci preme addosso, ci fa violenza, per obbligarci a sentire qualcosa (…). Il Tiepolo vuole stupirci, sconvolgerci, o sedurci. Si sovrappone alla natura, quella dei suoi stessi dipinti, illuminandola di luci che producono suggestione”. Lo spettatore, infine, deciderà se cedere alla seduzione: a chi scrive, questa gita turistica sul Carro di Gatsby non è particolarmente piaciuta. Forse perché il tour operator è vecchio di tre secoli.
Antonio Maiorino
Critico d'arte e di cinema
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