SOTTO ELARGITE SPOGLIE
di Paolo Meneghetti
Mostra collettiva d'installazioni < L'ART DE L'APPARENCE >, dal 2 Giugno al 24 Ottobre, a Venezia presso le Fondamenta delle Zattere, per la curatela di Michel Harcourt
Alle Fondamenta Zattere di Venezia, dal 2 Giugno al 24 Ottobre, segnaliamo la mostra collettiva L’art de l’apparence – L’apparence de l’art. La curatela è del fashion designer Michel Harcourt. Qui diciassette artisti internazionali esibiscono un abito, da appendere al soffitto (come riponendolo nel proprio armadio di casa!). Michel Harcourt ha curato l’allestimento nella possibilità che le opere “s’integrino” fra di loro, entro una sola stanza, e riempiendo questa completamente. Ne deriva che gli abiti paiono umanizzarsi, come se “dialogassero”: forse non l’uno con l’altro, ma certo col visitatore. Michel Harcourt ha aiutato i suoi artisti a disegnarli.
Vestendoci, noi lasciamo che il corpo “si chiuda” in se stesso. Guardando qualcuno, siamo interessati a “scoprirlo” caratterialmente; cominceremo percependone gli abiti. Vestirsi rappresenta una maniera per “dialogare” con l’alterità. La mostra dà una riqualificazione artistica al problema dell’apparenza, che platonicamente sarebbe stato da “svalutare”, rispetto a quello dell’universalità. Qui gli abiti s’arricchiscono di accessori, “fuoriuscendo” visivamente: dal tessuto (con la ceramica), dai ricami o dalle cerniere (con le scritte sulla carta), dalle imbottiture (nella camicia di forza), dal simbolismo (dove il pericolo della radioattività può diffondersi su tutti gli uomini). Spesso ci vestiamo per dare agli altri un’apparenza della nostra “essenza” (interiorità). L’appassionato di motociclismo porta le borchie, lo spacco sulle gambe aiuta la donna a sedurre un uomo ecc… Lì la dimensione dell’apparenza si riferisce ad un’essenza universale che riguarda pur sempre qualcuno in particolare. Michel Harcourt invece preferisce che il vestito virtualmente “fuoriesca” da se stesso. La dimensione dell’apparenza per lui non “si fa vedere”, bensì “ci fa vedere”. L’abito è “indossato” dall’universalità estetica. In questa, il particolare dell’opera d’arte andrà a reinterpretarsi, tramite le percezioni che ne avranno i molti visitatori. Complici gli accessori, gli abiti saranno in fuoriuscita parendo non tanto già indossati (dalle sagome dove appenderli) quanto piuttosto da indossare (per noi!).
Per il filosofo Roland Barthes, sino alla Rivoluzione francese a ciascuna classe sociale corrispondeva un preciso modo di vestire. In seguito, almeno la popolazione maschile usa l’abito uniforme. Trionfando la democrazia, sparisce la divisione per classi sociali. L’abito si universalizza principalmente tramite l’etica del lavoro, dove l’uomo si percepisce nella vita pubblica. La ricerca dell’apparenza non conta più, dove manca l’individualismo. Roland Barthes ci ricorda che il dandy voleva distinguersi dalla volgarità, indossando gli abiti. Allora doveva dettagliarli il più possibile. Il dandy poteva correggere da solo gli abiti. Vi aggiungeva o vi toglieva degli elementi, agendo in via almeno artigianale. Questi si percepivano nella “cifra” di se stessi, perché solo la “cerchia” del dandysmo poteva conferire loro un valore. Con la nascita della boutique, però, anche i vestiti più raffinati erano “standardizzati”, senza dettagliarli a titolo personale. Ciò determinò la fine del dandysmo, almeno nella storia dell’abbigliamento.
Fra i vestiti d’arte esibiti da Michel Harcourt, segnaliamo la Giacca costiera di Marcello Cinque. Subito ci colpisce il dettaglio estetico del lungo boa. Questo contiene una serie di “anelli”, che andrebbero ad ondeggiare sulla giacca sottostante. Noi li penseremmo a mo’ di “piccole boe”. Là “ci aggrapperemo” per risalire dalla mera apparenza del vestito all’universalizzazione dell’arte (quando un’opera si fa reinterpretare dal contemplatore esterno, quasi… “dondolandoci sopra” con la mente). La gommapiuma del boa farebbe da “risvolto” per il tessuto sottostante; dunque noi potremmo immaginare nel complesso un “giubbetto di salvataggio”. Sembra che Marcello Cinque assegni al suo vestito un’aura dandystica. Il boa è un tipo di accessorio certo ricercato, e qui esso s’arricchisce d’una configurazione per “cifre”, mediante gli “anelli”. Forse Marcello Cinque ha rivendicato l’aura… d’un “salvataggio per l’arte”, entro l’ineluttabilità della sua banalizzazione nella “boutique” del mercato.
Antonio Riello sceglie d’indossare la camicia di forza, tappandosi la bocca e legandosi le gambe. Se gli abiti normalmente servono per mostrare agli altri l’apparenza del nostro carattere, secondo l’artista di contro sarebbe meglio liberarsene, trovando persino l’essenza di se stessi. Il vestirsi sembra pur sempre un mascherarsi. L’arte “sdogana” materiali e concetti dal loro utilizzo quotidiano. Antonio Riello evita che il vestito “si faccia vedere”, preferendo che quello (nella virtualità del suo strappo) “ci faccia vedere”. Qui a “sdoganare” artisticamente il vestito saremmo noi, percependone la forza interiore. La camicia dovrebbe strapparsi, così da lanciare i suoi brandelli verso il visitatore, universalizzandosi. Il tessuto scelto da Antonio Riello è a quadretti, parendo facile da immaginare come potenzialmente “scheggiato”. Sappiamo che la camicia s’usa spesso nel posto di lavoro, giornalmente. Antonio Riello cercherebbe di “sdoganarla” in maniera artistica anche per questo. La percezione per così dire “democraticamente” uniforme della camicia tornerà a rappresentare l’interiorità del singolo, ma eliminando l’elitismo della raffinatezza (caro al dandy), con la sua “esplosione” sul visitatore.
Ricordiamo poi che sette artisti hanno scelto d’incontrarsi, creando per Michel Harcourt il Collettivo Viceversa. Il loro abito “si sdoppia” nella configurazione, come accade nelle carte francesi da gioco. Esso ci pare sia normalmente informale sia smascherante gli impulsi più imprevedibili. In francese, la parola vice significa vizio, giustificando così la scelta del “vestito… a viceversa”. Il primo è “sporcato” dai disegni pornografici, il secondo si vede in via più classicamente informale. Al Collettivo Viceversa interessa forse la “duplicità” dell’animo umano, diviso fra gli inquadramenti della società e la liberazione degli impulsi inconsci. Pubblicamente noi dobbiamo sempre vestirci, mentre spogliarsi è possibile solo per gioco (come accade al night-club). La pornografia contraddice questo. La troviamo pubblicamente (nelle edicole o nei negozi di dischi), non disdegnando che i suoi vestiti permettano di “giocare”: conosciamo la seduzione del baby-doll, ad esempio. E’ chiaro che indossare formalmente (nella vita sociale che chiede all’interiorità privata di responsabilizzarsi) serve per “farsi vedere”, mentre la pornografia per “farci vedere” (dal voyeurismo di fondo che la caratterizza).
L’artista Marya Kazoun esibisce l’installazione chiamata She ate it all. Tenderemmo a percepirla come un rivestimento organico, ben oltre il più “allineato” vestito superficiale. Dei lunghi cordoni scendono da una massa centrale, che forse li andrebbe “pompando”. L’artista precisamente sostiene d’aver “ironizzato” sopra il “metabolismo” dell’immagine femminile nel mondo contemporaneo. Questa seduce in modo “sgargiante”, si pubblicizza “a dismisura”, è “espulsa” dalla soddisfazione maschile ecc… La donna “fagocita” la sua immagine estetizzante, fra “l’intestino” della massa e le “vene” dei cordoni. L’interiorità appare senza il primo vestito che portiamo: quello dell’epidermide. L’essenza della donna si dà paradossalmente tramite la particolarità del consumo. Ma è ciò che pubblicamente accade nella società contemporanea. Il rivestimento di Marya Kazoun si percepisce kitsch, senza mai raffinare il processo “viscerale” dell’estetizzazione.