ANTONIO LIGABUE A LUCCA

Fino al 9 giugno 2013, presso il Lucca Center of Contemporary Art, la mostra Antonio Ligabue. Istinto, genialità e follia, a cura di Maurizio Vanni, in collaborazione con Giuseppe Amadei, getta uno sguardo nuovo sulla figura e sull’opera dell’artista. Innanzitutto, accoglie due olii inediti, Notturno con contadino e cane (1953-54) e Notte dei corvi (1957-58), la cui provata autenticità è data anche dalla collaborazione con Sergio Negri, il responsabile del catalogo generale delle opere di Ligabue. In esposizione, altre tele poco note al grande pubblico, e, per la prima volta insieme, un corpus di venti sculture delle 25 esistenti. E ancora disegni, un pastello e puntesecche.
La rassegna, inoltre, avvalendosi della consulenza del neuropsichiatra ed esperto di neuro-estetica Gianfranco Marchesi, vuole dimostrare come Antonio Ligabue (Zurigo, 1889 - Gualtieri, Reggio Emilia, 1965) non fosse assolutamente pazzo, come spesso si è pensato. Infatti, secondo il medico, dalla lettura della storia clinica ed esistenziale dell’artista, si può dedurre che “non era matto, non era uno psicotico, un alienato mentale, perché riassumeva in sé una personalità schizotipica, un disturbo bipolare, e una prepotente ricchezza emozionale, fattori spesso determinanti della genialità secondo i più recenti studi di neuro-estetica.” Ligabue era quindi un abile artista, consapevole del suo talento, ma anche del dramma della sua esistenza, segnata da tragici eventi.
Tra i momenti più traumatici della sua vita, il doppio abbandono da parte della madre naturale prima e di quella adottiva poi, i ricoveri a Gualtieri nel 1919 e all’Istituto Psichiatrico di Reggio Emilia. Uomo difficile e fragile, a volte era aggressivo contro se stesso, infatti nei suoi autoritratti figura spesso con il naso ferito o scorticato.
Unico conforto, le campagne e i boschi del Po, accanto agli animali, dove inizia il suo percorso artistico. La natura e l’arte sembrano salvarlo. Paesaggi e animali sono i soggetti preferiti. Ligabue si sente vicino alle bestie, alla loro condizione selvaggia e randagia, ed ecco che spesso ne imita con convinzione i versi e gli ululati, tanto da spaventare chi gli sta intorno. Nel 1928 conosce l’artista Marino Mazzacurati, che l’aiuta ad affinare la sua tecnica. Tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta scopre la duttilità del fango argilloso con cui modella le sculture di animali, realizzate fino al 1954, con la sola eccezione del Cavallo stanco del 1961. Nel 1940 l’amico pittore e scultore Andrea Mozzali lo fa uscire dall’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia e lo ospita nella sua casa-studio, commissionandogli una statua di Mussolini a cavallo. Dalla seconda metà degli anni Cinquanta comincia il successo di critica e pubblico, con molte committenze e la realizzazione della mostra del 1961 presso la Galleria La Barcaccia di Roma. Sempre nel 1961, si stabilisce nel retro della galleria d’arte di Sergio Negri, dove lavora assiduamente, nonostante la convivenza sia difficile, a causa dei suoi scatti d’ira quando viene contraddetto. Nel 1962 compare la malattia che lo porta alla paralisi.
Se la mente dell’artista è apparsa così sfuggente, divisa tra “precaria lucidità”, malessere ed estro creativo, allo stesso modo la sua arte non è facilmente classificabile; come sostiene Maurizio Vanni, Ligabue non è naïf, né espressionista, né tantomeno si può considerare il Van Gogh italiano. Non ha mai studiato arte e non ha visitato mostre per conoscere gli autori del passato o i suoi contemporanei. E’ tutto spirito, emozione e osservazione di ciò che predilige tra quanto lo circonda: i boschi, le pianure con le cascine, i campi, i canneti, gli animali che incontra nel suo girovagare o che ammira nei musei di scienze svizzeri, le bestie feroci del circo (Testa di tigre, olio su tavola, 1955-56; Leone e leonessa, bronzo, 1935) o dei film su Tarzan (Scimpanzé, bronzo, 1936). Un sorta di realismo naturalistico, a volte esasperato tanto da diventare quasi fantastico con il perdurare del ricordo del paesaggio dell’infanzia in Svizzera, descritto, nella pittura e nella scultura, in modo vivo, semplice e diretto. I colori sono forti e brillanti, la loro pastosità va a suggerire i volumi; la prospettiva è data dalle diverse dimensioni delle figure, che nel suo “secondo periodo”, di cui scrive Sergio Negri, si dilatano fino a occupare tutto lo spazio. Nell’ultima fase della sua produzione, dipinge senza disegno e l’esecuzione è più che mai veloce e istintiva.

Vera Agosti

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