Mia MADRE / / / / di Nanni MORETTI

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Ho aspettato qualche giorno per scrivere su Mia madre, volevo, anzi speravo che la prima impressione, il “getto”, venisse smentita dalla sedimentazione e dalla rielaborazione della memoria, ma la memoria ha confermato il getto. E questo mi ha intristito. Molto spesso ho definito Nanni Moretti una delle pochissime prove di esistenza in vita del cinema italiano. Il suo Habemus Papam fa parte della storia alta del cinema tutto, è il più grande film italiano dell’era recente. È dunque con tristezza, magari con dolore che in questo ultimo film, rilevo stallo, perdita di potenza, ripetitività. Rinuncio a un’analisi a posteriori del percorso storico di Moretti, vasto e articolato che ha portato alla “madre”. Significherebbe, anche, concedere al regista una franchigia: ha fatto molti film, ha detto molto, è invecchiato nel fisico e nella proposta, ma in fondo concediamoglielo, perché ci si arriva a quel punto, ci sono arrivati talenti maggiori del suo, come Fellini, Bergman, Kubrick e altri. È una parabola più che naturale. Però non deve essere un pretesto che rende immuni da critica. Mia madre è un buon film ma “buon film” non si addice a Moretti che è, appunto, “la prova” detta sopra. Non mi era mai successo di aspettare che un film di Moretti… finisse. Il primo punto è: ha continuato a fare il se stesso che conosciamo, ma prima le sue cifre grottesche e surreali, benevole e allarmanti, si aprivano fresche e forti, adesso vengono annunciate come lo squillo di un telefono. Sapevo prima la sequenza che sarebbe seguita e le parole che sarebbero state dette, nella sostanza naturalmente. Non amo il termine cliché che tuttavia può avere un significato positivo, come “riconoscibilità”. Tutti i grandi autori sono riconoscibili all’istante -un fotogramma di Fellini o degli altri detti sopra- e certo succede anche nella “Madre”, solo che la riconoscibilità è offuscata. È probabile che Moretti sapesse preventivamente che il suo film avrebbe mostrato fatica -quella naturale, appunto, del tempo che passa- ma non so se avesse la percezione della misura. È stato detto che il personaggio di Margherita (Buy), la regista protagonista del film, sorella di Giovanni (Moretti), ne sarebbe l’alter ego. Dico che ogni protagonista di film o di racconto è l’alter ego dell’autore. Ma qui i due sono davvero troppo simili. Mia madre si sviluppa attraverso due nodi: il film che Margherita sta girando che racconta di una fabbrica acquistata da un americano che ridurrà i quadri, dunque il sociale, la politica, l’aspetto umano eccetera. E poi la madre ricoverata, che morirà. Un’angoscia che attraversa tutte le vicende e tutte le parole. Due nodi molto impegnativi, due dolori che insieme diventano un peso insopportabile, che portano a una revisione radicale del percorso, a un riepilogo che sembra un testamento. Solo che rimane qualcosa che appartiene all’autore, che non ha la potenza, appunto, per essere trasferito all’utente.

Moretti medita su se stesso e il suo lavoro. C’è una battuta che Giovanni dice alla sorella regista: “fai qualcosa di unico, di diverso, devi rompere almeno un tuo schema, uno su duecento.” È chiaro che lo dice a se stesso. Ed è una battuta funzionale a tutti i film di Moretti, quando aveva trent’anni, poi quaranta, poi cinquanta e così via. Ma qui sembra davvero una excusatio. Mi chiedo ancora se lui non ne fosse cosciente… credo che lo fosse. Alter ego, fratelli simili. In certe battute sembrano uguali, si sovrappongono. Sono uno un doppione dell’altro. Voluto? Fino a questo punto? Credo che il regista avrebbe dovuto rinunciare a un doppione, insomma, dare prova di coraggio togliendosi dal film. Ne avrebbe guadagnato la leggerezza, che per fortuna arriva grazie a John Turturro con gli inserti della lavorazione del film. Turturro è l’attore americano che crede di essere un divo: millanta una collaborazione con Kubrick. Diverte, fa ridere, spezza la verbosità. E poi i dolori: nel magnifico La stanza del figlio, Palma d’oro, Moretti aveva raccontato quella morte. Qui racconta quella della madre. C’è grande differenza, i due dolori non sono omologabili: la morte di un figlio è uno squarcio che non si rimarginerà più, quella di una madre è una ferita che guarirà. Forse anche da questa differenza deriva la minor potenza, del dolore e della rappresentazione. Sono stato severo, lo vedo, ma perché trattasi di Moretti, che mi sta a cuore. Nel quadro generale del cinema italiano la qualità certo si stacca. Ma nel quadro dell’autore lo stallo c’è ed è, ripeto con tristezza, che ho dovuto rilevarlo. Alla prossima, con curiosità, e un quanto di apprensione. (di Pino Farinotti, domenica 27 aprile Mymovies.it)

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