CONCETTUALE, QUALCUNO HA DETTO CONCETTUALE ??" di Ivan Quaroni
Non ce la faccio, è più forte di me, quando sento pronunciare questo aggettivo mi viene l’orticaria, inizio a sudare e, in breve, perdo la calma. Dovrei cercare di essere più serafico, comportarmi taoisticamente, come l’acqua che s’adatta ad ogni superficie, ma è inarrestabile (e raramente imperturbabile) nel suo corso. Ecco, dovrei ricordarmi di tutti i libri del Dalai Lama che ho letto nel corso degli ultimi dieci anni, degli insegnamenti zen, della pericolosa calma dei maestri sufi. Dovrei contare fino a cento e poi trovare la quiete dell’indifferenza. E invece no, sono bellicoso per natura, amo lo scontro, la battaglia, la singolar tenzone.
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Questo argomento (come possiamo chiamarlo? Del concettualismo?) è, infatti, sintomatico dell’immobilismo e della sterilità di molta arte contemporanea, che si attarda su posizioni non più rispondenti alle esigenze di quest’epoca, caratterizzata da una profonda necessità di comunicazione. Ma procediamo con ordine.
Quando un’opera è definita concettuale? Ho una teoria al riguardo. Un’opera è definita concettuale, normalmente quando il suo significato è eccedente rispetto alla sua forma, ossia quando il suo aspetto non rimanda immediatamente al suo significato. Peggio ancora, quando la sua foggia non riflette un sentimento, una sensazione o qualsiasi altra emozione abbia governato la sua creazione. In sintesi, un’opera è definita “concettuale” quando non c’è coincidenza tra forma e sostanza, quando al “presunto” significato è attribuito un peso eccessivo a discapito della naturale vocazione comunicativa del manufatto. Insomma, se per capire l’oggetto che abbiamo davanti abbiamo bisogno, come diceva il compianto Maurizio Sciaccaluga, del libretto d’istruzioni, allora c’è qualcosa che non funziona. Nell’opera, ovviamente. Oppure nell’artista, che è poi la stessa cosa.
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Come scrive Franco Bolelli in Cartesio non balla, breve saggio sulla Definitiva superiorità della cultura pop, che non mi stancherò mai di lodare per la sua indispensabile leggerezza e profondità: “Fedele al principio Don’t explain, don’t complain (Mai spiegare, mai lamentarsi), ho sempre pensato che ogni volta che – in qualunque situazione – c’è necessità di una spiegazione, allora c’è qualcosa che non va”. Siamo a pagina 19 del libro pubblicato da Garzanti. Qualche riga sotto si legge: “A mio figlio, quando aveva dieci anni, non ho avuto alcun bisogno di spiegare Apocalypse Now né Jimi Hendrix e nemmeno Jackson Pollock. Perché Apocalypse Now, Jimi Hendrix, Jackson Pollock e pure Nietzsche […] possiedono qualcosa di cui non c’è traccia nel codice genetico delle avanguardie concettuali e del pensiero intellettuale: possiedono energia, eccitazione, slancio vitale. Studiare e approfondire è naturalmente bello e appassionante: ma mai e poi mai può surrogare la mancanza di slancio ed energia”.
Ecco, mi scuso con Franco Bolelli per questa ennesima citazione del suo pensiero nei miei scritti. Lo ammetto, forse ne ho un po’ abusato, includendolo in numerosi testi, non ultimo quello della sezione di Italian Newbrow alla quarta Biennale di Praga. Il fatto è che io sono un gran lettore e fino a che non ho letto Bolelli (con l’eccezione di Nietzsche e di qualche maestro sufi), non mi era mai capitato di leggere frasi così brutalmente chiare e semplici.
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Una volta, a un giornalista che gli chiedeva quale fosse il messaggio della sua ultima opera Woody Allen ha risposto: “se avessi voluto mandare un messaggio, mi sarei recato al più vicino ufficio postale”. Con questa fulminea battuta Woody Allen (o era David Lynch?) non fa che affermare che l’arte non ha bisogno di significati ulteriori. L’arte è tutta li, nella forma, nel linguaggio, nel suo offrirsi, molto democraticamente, allo sguardo di chiunque voglia osservarla. Un artista non crea un’opera perché vuole mandare un messaggio, sia esso politico, sociale, religioso o messianico. Certo, può benissimo farlo, ma temo che in tal caso dimostrerebbe di aver sbagliato mestiere. Un artista crea un’opera perché ha un esubero energetico e una necessità di condividere questa energia e questa visione con altri esseri umani. Non ho mai creduto all’idea dell’artista che lavora solo per se stesso. Tutte baggianate! L’artista lavora per essere riconosciuto da altri esseri umani. Per condividere la propria eccedenza energetica con quanti vorranno riceverla, per essere amato, apprezzato, considerato. Qualche volta, in una logica povera e miserabile, persino per avere più possibilità di scopare.
Dunque, dicevo… L’aggettivo concettuale mi fa venire l’orticaria, perché prefigura l’idea di un’arte programmata, studiata a tavolino, strategica come una campagna pubblicitaria o elettorale. Io a questo tipo di “campagne” preferisco la campagna vera, quella dei contadini e delle mucche, dei prati e delle colline in fiore…
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L’arte è un’estensione della vita, una periferica del respiro, del sentimento, dell’energia (scusa Bolelli). Se non risponde a questa necessità e diventa, come nel caso delle opere cosiddette concettuali, un compitino ben fatto, con tanto di spiegazione chiarificatrice, allora non vale la pena interessarsene. Ciò che scrive Sheldon B. Kopp nel suo Elenco Escatologico della Biancheria (alla fine di Se incontri il Buddha per strada uccidilo, edizioni Astrolabio) può essere applicato anche alla visione dell’opera d’arte:
1. È tutto qui
2. Non ci sono significati reconditi
Una persona d’intelligenza media dovrebbe ricavare (o non ricavare) soddisfazione da un’opera d’arte indipendentemente dai suoi contenuti intellettuali. Le emozioni che l’arte ci offre non hanno nulla a che fare col cervello, semmai con le palle, lo stomaco, il basso ventre, l’inconscio o come diavolo volete chiamare la sede dell’energia umana. L’eccitazione fa muovere l’universo, non i concetti. Le idee, non le teorie. Bisogna inventare una critica (ma anche questo termine è odioso) che abbia le sue basi nella fisiologia umana, nella verità del corpo, nell’energia elettrica dell’individuo e nella saggezza dell’esistenza stessa. Solo così, tra inevitabili errori e fortunose derive, sarà possibile tornare a considerare l’arte un’attività necessaria, e non accessoria, alla crescita dell’umanità.
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DIDASCALIE IMMAGINI:
1) Francesca Guffanti, Pippi, 115x152cm olio su tela 2008
2) Paolo De Biasi, Network, 102x105 cm, acrilico su tavola 2009
3) Jacopo Casadei, Astst n2'', 100x70 cm, acrilico su tela
4) Agnese Guido, La volpe in giardino (seduzione), 150x200 cm tecnica mista su tela 2008
5) Daniele Bordoni, Sinapsi, 180x150 cm olio su tela 2008
The butterfly effect 00, di Ivan Quaroni.
"Concettuale, qualcuno ha detto concettuale?"
pubblicato su lobodilattice il 14/06/2009
Nota:
le immagini sono state selezionate da Ivan Quaroni e non hanno nessuna relazione col testo, tranne quella di dimostrare che c'è in giro ancora della buona pittura.