La nozione di “realtà” dovrebbe essere rivista, in considerazione del fatto che sono aumentate progressivamente le occasioni di vivere, talvolta anche per molte ore di seguito, all’interno di simulazioni virtuali. Oltre al cinema e alla televisione, la rete web e l’industria videoludica hanno, infatti, implementato a dismisura l’offerta di virtualità. Oggi un normale teenager passa una buona parte del suo tempo davanti allo schermo di un computer per studiare, per informarsi, per scrivere, per giocare, per fare shopping e per comunicare. Di fronte a questo cambiamento epocale, che Nicholas Negroponte indicava nel suo Essere digitali come “il passaggio dall’atomo ai bit”, ossia la trasformazione da una realtà concreta e tangibile ad una sempre più smaterializzata e astratta, il tradizionale concetto di “realtà” appare manchevole e inadeguato. Derivato dal latino res, che significa “oggetto”, “cosa” fisica, il termine “realtà” si contrappone al concetto di abstracta (quidquid credat intellectus de rei veritate, ovvero ciò che l'intelletto crede circa la verità della cosa). A partire da qui, si delinea una dicotomia tra le cose tangibili (il mondo fenomenico) e il soggetto che le percepisce e le valuta, che contraddistinguerà tutta la storia del pensiero, dalla filosofia greca fino alla fisica quantistica. Come ha scritto Albert Einstein, “la fede in un mondo esteriore indipendente dall'individuo che lo esplora è alla base di ogni scienza della natura. Poiché tuttavia le percezioni dei sensi non danno che indizi indiretti su questo mondo esteriore, su questo reale fisico, quest'ultimo non può essere afferrato da noi che per via speculativa. Ne deriva che le nostre concezioni del reale fisico non possono mai essere definitive”(1). E ciò è vero anche per la cosiddetta realtà virtuale che, per quanto immateriale, implica comunque il coinvolgimento dei sensi e dunque di una realtà tangibile come il corpo umano.
Ora, se alla nozione di “realtà” vanno ascritte nuove dimensioni, esse non possono ridursi solo a quelle di origine informatica e digitale, ma devono comprendere anche tutte quelle entità originate dalla psiche, che assumono le forme della fantasticheria, della fantasmagoria e dell’utopia. Sogni, miraggi, chimere, allucinazioni, visioni, incubi e ossessioni che, pur non avendo un corrispettivo tangibile nel mondo fenomenico, possono influenzare la realtà attraverso le arti visive, la letteratura, la filosofia e le altre discipline correlate al pensiero umano.
C’è una stretta relazione tra i periodi di crisi di una civiltà e la propensione degli individui o della collettività a cercare rifugio in mondi fantastici, in universi paralleli oppure in visioni apocalittiche partorite da un’immaginazione morbosa e patologica. Alla fine del secolo XIX, il Decadentismo rispecchiava nella letteratura, nella musica e nelle arti visive il clima d’inquietudine e di smarrimento seguito alla crisi del Positivismo scientifico e dell’umanitarismo socialista, così come, quasi un secolo avanti, la nascita del romanzo gotico aveva rappresentato una reazione all’eccesso di razionalismo dell’illuminismo borghese. Tali eventi ricalcano un preciso schema che si ripete identico in ogni epoca storica, ricordandoci quanto espresso da Eraclito nella teoria dell’enantiodromia, ossia la modalità di funzionamento della psiche umana che regola e bilancia sentimenti e impulsi contrari. Secondo Eraclito, l’uomo non può assumere un unico atteggiamento senza che la persistente negazione del suo opposto non provochi una deflagrazione di quelle stesse forze che egli ha negato. Come una luce intensa produce ombre più profonde, così, in una civiltà, l’eccesso di ragione scatena opposte tendenze irrazionali. Carl Gustav Jung affermava che “L’atteggiamento razionale della civiltà sfocia necessariamente nel suo contrario, cioè nella devastazione irrazionale della società stessa”(2).
Nello stato di attuale crisi, è comprensibile che vi sia un diffuso scontento nei confronti della realtà che si traduce in forme di escapismo ed evasione. Quando la realtà tangibile è causa di insoddisfazione o, peggio, di sofferenza, la fantasia si offre come una facile via di fuga, oppure come uno strumento di occultamento del malessere sotto spoglie metaforiche e allegoriche.
L’arte fantastica, a differenza di quella realistica, spesso possiede un duplice livello di lettura. Da una parte essa è la testimonianza di un diffuso malessere, che porta gli artisti a prediligere forme di espressività traslate e metonimiche, dall’altra essa può diventare un inatteso dispositivo di critica sociale.
1)Albert Einstein, Come io vedo il mondo, Milano, Giachini, 1966, pp. 111-119