Figure mitiche delle religioni
La religione di Mosè
Sigmund Freud individuò Mosè (nella foto nella versione di Michelangelo) come il continuatore del monoteismo di Akhenaton, come colui che realizzò – a modo suo – ciò che il faraone egiziano aveva iniziato, travolgendo la vecchia religione di Tebe e superando la visione animistica che aveva imperato per almeno due millenni – con sofisticate personificazioni – intorno al Nilo. Si ritiene che Mosè operasse intorno al XIII secolo a.C., in un periodo in cui gli ebrei erano stati deportati in Egitto. Egli riuscì, con la leva della religione – prima grande vittoria di quest’ultima nella storia – a riportarli in Israele: ne sarà condizionato il mondo intero, nel tempo.
Salvato dalle acque
Secondo la vulgata, il nome Mosè significa “salvato dalle acque”, più specificatamente “fanciullo tirato su dall’acqua”. La sua vicenda è molto simile a quella, molto precedente, del re accadico Sargon, unificatore dei territori sumerici. La storia di Mosè viene narrata principalmente dalle Sacre Scritture, da Filone d’Alessandria, da Flavio Giuseppe. Che abbia reale valore storico è cosa ancora in discussione. A oggi non è provato che egli sia realmente esistito. È ben solida, invece, tutta la narrazione che tratta della conquista della “Terra Promessa”, ovvero dell’instaurazione degli ebrei in Israele. Alla base c’è una cattività ebraica in Egitto, forse sotto il faraone Ramesse II, e una ferma volontà di liberazione da parte del popolo oppresso, inteso come gente unificata da riti consimili ma diviso in varie tribù. Mosè sarebbe una figura di condottiero ideale, capace di riunire veramente gli ebrei in un solo popolo, come in effetti avverrà. Le storie che lo riguardano possiedono un alto valore emblematico, sono edificanti, per uno scopo sostanziale che va ben oltre la glorificazione di un condottiero.
Miracoli nel nome di Mosè
Ricordiamo che Mosè fu abbandonato dalla madre – così era la legge egiziana verso gli ebrei – in un cesto affidato alle acque del Nilo; che la figlia del faraone lo recuperò; che, cresciuto, il nostro profeta uccise un egiziano intento a picchiare un ebreo, per cui fu costretto a fuggire. Fu assistito dai Madianiti, affini agli ebrei, che abitavano nei pressi del golfo di Aqaba (regione di Hegiaz), a ridosso del mar Rosso. Lì gli apparve Dio che lo spronò a liberare il suo popolo. Tornato in Egitto, il profeta tentò di convincere il faraone a lasciare liberi gli ebrei. Il rifiuto costò all’Egitto le famose dieci piaghe, al termine delle quali, arrivò il permesso. Gli ebrei partirono sotto il comando di Mosè, il faraone dopo poco ebbe un ripensamento e mandò un potente esercito a catturare i fuggitivi. Qui entra in gioco la separazione delle acque del Mar Rosso, da parte del profeta, la distruzione dell’armata egiziana, il viaggio degli ebrei verso la Terra Promessa con sosta presso il Monte Sinai, dove Dio inviò a Mosè le famose tavole dei Comandamenti (il decalogo). Durante l’assenza del profeta, avvenne l’episodio del “vitello d’oro”, promosso da Aronne – fratello di Mosè e primo sommo sacerdote ebraico - e risolto, con la distruzione dell’idolo da parte del profeta al suo ritorno con le tavole. Ripreso il viaggio, gli ebrei impiegarono quarant’anni per conquistare la Transgiordania meridionale e qui, sul monte Nebo, da cui si ammirava la Terra Promessa, il condottiero morì. Secondo uno scritto apocrifo dell’Antico Testamento, non riconosciuto dalla liturgia tradizionale (questo il significato ultimo di apocrifo), fu assunto in cielo.
Significato dell’azione di Mosè
La divinizzazione del personaggio ha un preciso e importante retroscena e cioè il raggiungimento della compattezza di popolo degli ebrei. Mosè usa l’arma religiosa per ottenere uno scopo sociale di grande tenuta e di sicura unità. Egli non esita a scagliare minacce, a punire senza pietà, pur di giungere al traguardo. La dottrina di questo straordinario profeta (ovvero la personificazione ideale di una figura concreta sino ad attribuire a essa ogni possibile virtù) è di tipo dichiaratamente totemico, ma ha carattere spiccatamente spirituale. La totemicità in questione esclude discussioni intorno alla divinità. Quest’ultima si deve accettare spiritualmente. La mancanza di un riferimento oggettivo dà all’argomento divino un valore trascendentale che obbliga a riflessioni emotive profonde. Ardua è la trasmissione di una fede di questo genere. A un certo punto, Mosè ricorre alle tavole, fornisce qualcosa di concreto. Ma anche qui, in definitiva, ciò che conta sono i comandamenti, non la tavola su cui sono scritti. L’adorazione verso Dio è circostanziata da obblighi, il cui significato è ben chiaro. Diciamo la verità, questi obblighi erano già presenti nelle società antiche, ma ribaditi con marchiature a fuoco, per così dire, persuadono, diventano norme sacre e solenni. Mosè ribadisce la garanzia con il suo comportamento di padre giusto e inflessibile. Diventa un idolo vivente, un idolo che risponde alle domande fondamentali. Sono risposte che non consentono controbattute: così è e non indagare oltre. Si tratta chiaramente di un limite che tuttavia ai tempi non era tale, al punto di consentire un’unificazione evidentemente ambita, per ragioni soprattutto pratiche, ma impossibile senza una guida determinata, sicura di sé. La religione come potere politico, non è una novità in assoluto, ma di certo è un mezzo vincente, nel caso, come mai in passato. I popoli antichi spariranno, ma non gli ebrei.
Le conseguenze dello spirito
La questione pratica nell’azione religiosa, non esclude il fascino spirituale emanato dal monoteismo di Mosè. E’ un monoteismo diverso da quello di Akhenaton. Diciamo che è un passo ulteriore: Aton è il sole, o meglio la sua luce (comunque è una divinità visibile), mentre il dio di Mosè è puro spirito, cioè qualcosa che neppure si riesce a immaginare, si deve sentire dentro di sé. Si pensi a quanto dovette essere problematica la sostituzione di un idolo oggettivo con un idolo ipotetico. La condensazione spirituale in un unico riferimento fu un capolavoro di saggezza e di sagacia: la prima riconoscibile nella raccolta delle varie tensioni idolatriche e nella loro sublimazione; la seconda riguarda l’uso di questa saggezza a fini nobili, sociali, ma anche con l’aggiunta di una dittatura comportamentale responsabile della creazione di una casta direttiva. Va riconosciuta la capacità di raggiungere un obiettivo importante e cioè la creazione di una società – la vita sociale è molto più vantaggiosa per chiunque rispetto all’anarchia - al posto di un’umanità allo sbando, ma va anche riconosciuta la nascita di una gerarchia precisa, creata intorno a leggi scritte addirittura da dio (il decalogo), con a capo una religione indiscutibile, paralizzante ogni iniziativa razionale, ogni autonomia di pensiero. Se la spiritualità fosse stata matura, vale a dire in grado di apprezzarsi senza bisogno di ricorrere a riferimenti esterni, non ci sarebbe stato bisogno di Mosè. Ce n’è stato bisogno perché questa maturazione era di là da venire, perché si basava su vecchie credenze rammodernate sentimentalmente e riordinate secondo una logica emotiva bisognosa di certezze, di riscontri. Alla fine, la vittoria dello spirito si confuse con quella della materia, come dimostrano le tavole di Mosè, pesanti, ingombranti, oggettivamente presenti. Ovviamente si tratta di una forzatura, senza la quale, tuttavia, l’impresa del Nostro non avrebbe lasciato il segno.
Soluzioni e nuovi problemi
L’impresa di Mosè rappresenta la soluzione ideale di un problema difficile, quello dell’unità fra gli uomini. L’idealità è provata da una robusta formazione sociale, dovuta a una teocrazia opportuna per i tempi, chiara e incisiva nei dettagli. Mosè è un punto fermo nella storia antica. Per la modernità laica egli, invece, è il portatore di un potere religioso di tipo sciamanico che non fa bene alla razionalità e che ostacola lo sviluppo dell’individuo. Questo potere è responsabile di un verticalismo sociale non basato sulla meritocrazia. La religione in parola si mette fra l’uomo e la divinità, inventandosi messaggera divina, promuovendosi eone, una figura sostanzialmente di comodo che consente libertà illimitate non sempre a favore del soggetto comune. Essa ritiene di detenere la moralità assoluta, risolvendola in litanie, in carità, in pietas zuccherina, lasciando la spiritualità sullo sfondo. Come faceva Mosè con più impegno e convinzione e con più rispetto verso lo spirito. Questa buona fede ha consentito alla sua religione una lunga esistenza con lievi variazioni. Gesù la cambiò nominalmente, non sostanzialmente. Il dio di Mosè trionfò anche nel Cristianesimo, quando quest’ultimo ereditò i territori dell’impero romano, o, meglio, se li prese. La religione misericordiosa di Gesù fu emarginata a favore del dio punitivo dell’Antico Testamento. Era indispensabile il cambio per tenere insieme la società? O era facile ricorrervi per brama di potere? Sono due domande che Mosè non si pose, anzi alla seconda non pensò proprio, né sospettò lo scadimento (semmai sognò un’evoluzione, sperò nel raggiungimento di una spiritualità consapevole: traguardo al quale l’umanità sta tuttora aspirando). Una curiosità: le corna di Mosè (riprodotte anche da Michelangelo). Dopo aver ricevuto le tavole, a sua insaputa il profeta divenne raggiante. Nell’ebraico scritto non vengono inserite le vocali: krn può essere letto karan (emanazione luminosa), oppure keren (osso). San Gerolamo, realizzando la “vulgata” (la Bibbia in latino), scelse keren, termine ricorrente presso gli ebrei, perché il copricapo dei loro sacerdoti aveva sulla sommità delle corna. Il santo le intendeva, giustamente, fonte di emanazione spirituale sacra.
Dario Lodi